Contus

Con la morte di nonno Evandro ho ripreso contatto con le usanze e le tradizioni, legate al culto dei morti, di cui sentivo parlare da bambina e che allora trovavo incomprensibili e inquietanti.

Uno strano connubio tra sacro e profano.

Sono sempre stata molto colpita dalle consuetudini legate al cibo: i vicini di casa e i parenti che portano su pratu alla famiglia del defunto, per sostenerla in un momento così doloroso garantendole un pasto caldo; la famiglia del defunto che offre caffè e biscotti dopo il funerale.

In questi rituali, il cibo non ha solo una funzione di sostentamento ma diventa un vero e proprio strumento di comunicazione con il sacro: nutrimento per l’anima del defunto e purificazione per i vivi, che sono stati a stretto contatto con la morte.

Per questo, il cibo offerto deve essere consumato rigorosamente in casa del defunto, in un rituale che si svolge secondo un copione ben definito.

Ma da bambina, la cosa che mi inquietava di più in assoluto era s’atitidu.

Un momento solenne e drammatico, una sorta di lamento in rima in cui is atitadoras declamano le qualità del defunto e il dispiacere dei vivi per la sua scomparsa.

Ricordo quello eseguito da mia nonna paterna e dalle sue sorelle in occasione della morte del padre: erano tutte vestite di nero attorno a lui e piangevano e si disperavano. Mio bisnonno aveva novantanove anni e io cinque.

Camminava lesta come sempre e Maria accanto a lei teneva il passo a stento, nonostante il suo vestitino bianco non avesse il peso della gonna lunga della vecchia. La casa del morto non era distante, ma già a centinaia di metri si sentiva il canto cupo dell’atitu. Ogni volta che si levava quel lamento dalla musicalità sguaiata, era come se ai sorenesi venissero cantati i dolori di ogni casa, quelli presenti e quelli andati, perché il lutto di una famiglia risvegliava la memoria mai sopita di tutti i singoli pianti passati. Allora le ante delle finestre del vicinato venivano accostate, rendendo ciechi al sole gli occhi delle case, e ciascuno accorreva a piangere i propri morti nel morto presente, per interposta assenza. Il morto di quel giorno stava disteso nel letto al centro della sala d’ingresso, con i piedi calzati rivolti all’entrata. Già pronto per la terra, lo avevano vestito come per andare a una festa, con il completo scuro che aveva usato per sposarsi, quand’era magro, sano e decideva della propria vita.

Michela Murgia, Accabadora (2009)

COLONNA SONORA

Il brano che mi ha accompagnata durante la scrittura è Anninnia Anninnia di Rossella Faa

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