Su civraxu

Quando ero piccola le mie nonne facevano il pane in casa, su civraxiu, e per me era una festa. Ricordo ancora il delizioso profumo che invadeva la casa e l’impazienza per l’assaggio.

Per me, mio fratello e mia sorella nonna faceva sa ladixedha, un civraxu di piccole dimensioni dal sapore unico. L’avremmo mangiato appena tirato fuori dal forno, ancora caldo, ma nonna ci faceva aspettare che si sfreddasse, per scongiurare il mal di pancia.

La panificazione era un vero e proprio rituale che iniziava, mesi prima, con la semina e la raccolta del grano: ricordo ancora il grano, su trìgu, lavato e messo ad asciugare al sole nel cortile dei miei nonni.

Il passo successivo era portare il grano al mulino. Qualche volta ci andavo anche io. Me lo ricordo come fosse un sogno in bianco e nero: io, nonna Anna e le sue sorelle che aspettavamo in una stanza enorme, polverosa e dal soffitto altissimo.

Una volta macinato nonna separava la crusca, su pòdhini, dalla farina con diversi tipi di setaccio, iniziava con su cioliriu e proseguiva con su sedàtzu, e creava le miscele che avrebbe usato per i vari tipi di pane: su civraxu, su civraxedhu e su pani biancu, il mio preferito.

Finalmente arrivava il fatidico giorno. Nonna si svegliava all’alba, in modo da avere il tempo per impastare, far lievitare l’impasto e infine cuocerlo.

Il giorno prima rinfrescava il lievito madre, su framéntu, che le era stato tramandato da sua mamma. Adoravo assaggiarlo di nascosto, stando bene attenta che nonna non mi scoprisse.

Nonna Anna e nonno Evandro avevano il forno per cuocere il pane ma non l’impastatrice. Impastare a mano era molto faticoso, così nonna, sua sorella Assunta e altre vicine andavano a ciuèxi a casa di tzia Stefannina. Signora Stefanina apriva loro le porte di una piccola stanza, che si affacciava sul grande cortile interno della casa, e si mettevano al lavoro.

La panificazione è sempre stata un’attività prettamente femminile che affonda le radici in una tradizione antichissima, risalente all’epoca nuragica. Una piastra di cottura e dei resti di pane sono infatti stati rinvenuti in una delle torri del Nuraghe Arrubiu di Orroli.

Le mie nonne hanno smesso di fare il pane quando ero poco più che adolescente e da allora mi sono mancati tantissimo quei profumi e quei sapori che in parte ho ritrovato grazie al panificio Kentos, del cui pane non posso più fare a meno.

Mangiandolo ritrovo ogni giorno il profumo e il sapore del pane appena sfornato, così come lo facevano le mie nonne.

Il pane era fatto in comune da tutte le donne maiores e minores eccettuate le dodici prescelte che cantavano i nomi delle stelle nelle janas e spesso nonostante la proibizione discutevano di ogni minima imperfezione della vita mentre i maschi mugugnavano Is Er Uh a voce così bassa che li avresti detti muti. Molti in punto di morte dicevano di non avere mai più mangiato pane buono come quello dei dodici giorni. Le donne conservano il segreto di quel pane.

Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri (1996)

COLONNA SONORA
Il brano che mi ha accompagnata durante la scrittura è Pane e sale di Zucchero


2 risposte a “Su civraxu”

  1. Ma che bei ricordi…
    Il nostro pane era diverso perche tipico del paese ma le atmosfere le stesse. Il Pane bianco (Cicci) era più grande di quello attuale,grande come un disco a 33 giri mentre quello integrale (civargiu) era ovale e piu scuro. A me non piaceva tanto il civargiu ma negli anni imparai ad apprezzarlo. Le donne, con in testa enormi corbule, attraversavano il paese per recarsi al forno per la cottura e rientravano lasciando una scia profumatissiama alle loro spalle. I pane delle feste aveva un bordo con tante piccole punte che lo rendevano simile ad un sole mentre solitamente aveva un bordo liscio. Inoltre sempre in occasione feste o matrimoni, veniva impreziosito con immagini in rilevo realizzare con timbri a secco.

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