La memoria

Tra pochi giorni, il 27 gennaio, si celebra la giornata della memoria per le vittime dell’olocausto.
Il 27 gennaio del 1945 infatti le truppe dell’armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.

Mi sembra di conoscere da sempre il termine campo di concentramento perché in famiglia ne ho sempre sentito parlare, sin da piccolissima.
Avevo più o meno sei anni quando mio nonno paterno mi raccontò per la prima volta della terribile esperienza vissuta nel campo di lavoro di Norimberga.

Lo chiamavano così, campo di lavoro, un luogo di reclusione in cui i prigionieri di guerra lavoravano senza sosta alla costruzione delle trincee.

Era il 1940 e, a soli vent’anni, nonno era partito per il servizio militare di leva. L’Italia era appena entrata in guerra e lui venne mandato in Grecia.
I soldati Italiani arrivarono come conquistatori, ma dopo l’armistizio firmato dal maresciallo Badoglio furono catturati e caricati sui treni diretti in Germania: nonno era tra quelli.

Attraversarono la ex Jugoslavia e a Belgrado capirono cosa stava succedendo.

Il treno si fermò e in molti scesero per cercare si salvarsi: furono uccisi tutti, sopravvisse solo chi rimase sul treno.

Da quel momento iniziarono per mio nonno i due anni peggiori della sua vita.
La cosa che mi rimase più impressa dei suoi racconti furono le descrizioni riguardo la mancanza di cibo.
Trascorrevano l’intera giornata lavorando e quando erano fortunati mangiavano bucce di patate o i ratti che solo i più scaltri riuscivano a catturare.
I meno fortunati si accontentavano di mangiare le croste che staccavano dalle numerose  escoriazioni causate dal lavoro senza sosta.

Gli abitanti del luogo tentavano continuamente di portare loro qualcosa da mangiare, ma i soldati tedeschi lo impedivano sistematicamente.
Nonno fu tra i prigionieri fortunati, per il semplice fatto che con la liberazione da parte degli americani riuscì a tornare a casa.

Un altro viaggio in treno, questa volta con destinazione Napoli, dove rimase tre giorni, prima di imbarcarsi per la Sardegna.

Nei miei ricordi di bambina c’è nonno che, nonostante la terribile esperienza vissuta, riusciva a raccontarmi cose orribili come fossero favole, senza spaventarmi. Era riuscito a tornare a casa custodendo ciò che di buono aveva imparato in quegli anni terribili: la lealtà, la solidarietà e l’amore per il prossimo.

Al suo arrivo in paese, alla stazione, trovò tutti i compaesani ad aspettarlo. C’era chi aspettava il rientro di una persona cara, ma anche i curiosi. Erano tutti li a dare il bentornato ai reduci.

C’era anche nonna, alla quale rimase impresso quel ragazzo irriconoscibile che pesava poco più di trenta chili e che dopo qualche anno diventò suo marito e il padre dei suoi figli.

La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata dai riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo.

Qualcuno tradusse: bisognava scendere con i bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce.

Una decina di SS stava in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni hai? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.

Primo Levi, Se questo è un uomo (1947)

COLONNA SONORA
Il brano che mi ha accompagnata durante la scrittura è Remembrances di John Williams

Rispondi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: