Quando sento parlare del grande falò, su fogadoni, che si accende in occasione di Sant’Antonio Abate o di San Sebastiano mi viene in mente un aneddoto di quando ero bambina.
Avevo circa sette anni, ero a casa e aspettavo il rientro di mio padre dal lavoro. Avevo deciso di fargli uno scherzo: mi sarei nascosta sotto il tavolo e al suo ingresso in cucina sarei saltata fuori per farlo spaventare.
Ma al suo arrivo le cose andarono diversamente: arrivò a casa più tardi del solito e fu lui a spaventare me. Quando uscii da sotto il tavolo lo vidi con la faccia tutta sporca di fuliggine e scoppiai a piangere.
Era il 17 o il 20 gennaio, date in cui si celebrano rispettivamente Sant’Antonio Abate e San Sebastiano.
Mio padre, rientrando dal lavoro, si era fermato in piazza per assistere all’accensione del falò.
Quando il fuoco si stava spegnendo, soprattutto i ragazzi amavano prendere con le mani i tizzoni neri di fuliggine e accarezzare il viso dei vicini, in segno di buon augurio.
Non ricordo di aver mai assistito al rituale dell’accensione ma ho sempre sentito raccontare che, già settimane prima, l’obriere, aiutato dagli amici, andava a chiedere la legna agli abitanti del paese.
“Chi sa perché mai” dissi “si fanno questi fuochi.”
Cinto stava a sentire. “Ai miei tempi”, dissi, “i vecchi dicevano che fa piovere… Tuo padre l’ha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia quest’anno… Dappertutto accendono il falò.”
“Si vede che fa bene alle campagne”, disse Cinto. “Le ingrassa.”
Mi sembrò di essere un altro. Parlavo con lui come Nuto aveva fatto con me.
“Ma allora com’è che lo si accende sempre fuori dai coltivi?” dissi. “L’indomani trovi il letto del falò sulle strade, per le rive, nei gerbidi…”
“Non si può mica bruciare la vigna”, disse lui ridendo.
Cesare Pavese, La luna e i falò (1949)
COLONNA SONORA
Il brano che mi ha accompagnata durante la scrittura è Demon Fire degli AC/DC