Sono cresciuta sentendo parlare del malocchio, su pitziamentu de s’ogu, e ascoltando racconti, molto fantasiosi, che avevano sempre la stessa premessa: chiunque ne parlasse diceva di averlo sentito raccontare dal diretto interessato. Mettendo quindi in evidenza la veridicità del fatto.
I protagonisti dei racconti erano i più svariati. Buoi che cadevano a terra come morti, dopo aver incrociato, lungo il cammino, qualcuno che si era soffermato ad ammirarli, forse, per un attimo di troppo. Oppure fiori che si seccavano, perché la vicina li aveva apprezzati, senza però toccarli, forse, provando un pizzico di invidia. Il malocchio, infatti, è il frutto di un desiderio. Si genera involontariamente e viene determinato da uno sguardo. Il malocchio viene scongiurato se la persona che prova interesse tocca l’oggetto del desiderio.
Da bambina mi dicevano molto spesso ta bellixedda, beni ca ti toccu, che bella, fatti toccare. Il motivo era sempre lo stesso: evitare di fare il malocchio.
Il mal di testa, associato a spossatezza e alcune volte pure alla febbre avevano un’unica diagnosi: T’ant pitziau de ogu, ti hanno fatto il malocchio.
Il rimedio poteva essere cercare il responsabile, se si sapeva precisamente chi fosse e se lo si conosceva, per fargli toccare “il malato”. Questo ovviamente non era sempre possibile o a volte non era sufficiente.
Quindi la persona colpita, direttamente o indirettamente, doveva recarsi dalla guaritrice del paese, massima esperta nel campo, e farsi fare sa mexina de s’ogu, il rimedio contro il malocchio.
Io stessa da ragazzina ricordo di aver assistito diverse volte al rituale e di esserne stata anche l’oggetto.
Si usavano acqua, olio e grano e a seconda di come questi elementi interagivano tra loro veniva confermata o meno “la diagnosi”.
Per curare il malcapitato, la guaritrice recitava in segreto alcune preghiere magiche, is brebus, e poi gli faceva bere l’acqua per almeno tre volte.
Ovviamente, le persone potevano usare anche tutta una serie di metodi per evitare il malocchio. Nonna diceva sempre di mettere tre grani di sale grosso nella tasca dei pantaloni. C’era poi il classico braccialetto verde da mettere al braccio dei bambini. Io amo appendere al collo su coccu, un ciondolo realizzato con una pietra nera sferica in ossidiana incastonata nell’argento. Affinché funzioni da amuleto occorre che la pietra sia abrebada. Le signore anziane utilizzavano, contro la persona che aveva fatto il malocchio, dei gesti: su fricu si fa mettendo il pollice tra l’indice e il medio, chiudendo il pugno.
Un samurai chiese a un maestro di spiegargli la differenza tra il cielo e l’inferno. Senza rispondergli, il maestro si mise a insultarlo pesantemente. Infuriato, il samurai sguainò la spada per mozzargli la testa.
“Questo è l’inferno” disse il maestro prima che il samurai passasse all’azione. Il guerriero, colpito da queste parole, si calmò all’istante e rinfoderò la spada.
Dopo che ebbe compiuto questo gesto, il maestro aggiunse: “E questo è il paradiso.”
Quando entriamo in determinati stati d’animo ci creiamo il nostro inferno, mentre quando entriamo in stati d’animo opposti ci creiamo il nostro paradiso. L’inferno e il paradiso dipende solo da noi.
Alejandro Jodorowsky, Il dito e la luna. Racconti zen, haiku, koan (2006)
COLONNA SONORA
Il brano che mi ha accompagnata durante la scrittura è Il ballo di San Vito di Vinicio Capossela