Quando nonna Gelasia faceva i ravioli, is culixonis, impegnava tutta la famiglia, grandi e piccini. Il mio compito, insieme a mio fratello, era sistemarli nei cestini di giunco, is pallinis, debitamente rivestiti con panni in cotone, rigorosamente bianchi.
A turno, io e mio fratello potevamo anche girare la manovella della macchina per stendere la sfoglia, dopo che nonna l’aveva adeguatamente impastata, mescolando farina, acqua, sale e uova. La pasta passava attraverso la macchina una volta, poi due, tre finché non raggiungeva lo spessore desiderato.
Uno dei miei momenti preferiti era sicuramente quello in cui si assaggiava il ripieno. Nonna faceva cuocere le patate, le sbucciava e le schiacciava. Intanto aveva già fatto un soffritto di aglio e prezzemolo che mischiava alle patate insieme allo zafferano, le uova, un po’ di saporita, scorza d’arancia e formaggio sardo grattugiato. Una volta amalgamati gli ingredienti si procedeva all’assaggio e io di solito avevo bisogno di assaggiare più di una volta.
Facevamo le palline che dovevano essere obbligatoriamente tutte uguali, affinché potessimo disporle ben distanziate sopra la sfoglia sfoglia. Questa precisione faceva si che i ravioli avessero tutti la stessa dimensione. Successivamente nonna ripiegava la sfoglia, la schiacciava con le mani per far uscire l’aria e infine tagliava.
A quel punto intervenivamo io e mio fratello per prendere ogni singolo raviolo e disporlo, ben distanziato dagli altri, nel cestino. Lo ricordo come un lavoro estremamente noioso, mi sembrava che i ravioli non finissero mai. Anche perché nonna ne faceva veramente tanti. Ricordo che ce n’erano ovunque, in ogni stanza della casa.
Solo da adulta ho iniziato a chiedermi in che modo nonna bilanciasse gli ingredienti, ma quando provavo a chiederglielo, con molta naturalezza, mi rispondeva a ogu, a occhio.
I ravioli si facevano in quella parte della casa che lei chiamava sa lolla che altro non era che la cucina della casa di mia bisnonna, sua suocera, attigua al resto della casa. Era lì che faceva il pane, le patate fritte e il resto dei suoi esperimenti culinari.
Una volta finito con i ravioli, se c’era il camino acceso, nonno ne arrostiva qualcuno alla brace. Erano una vera prelibatezza e io e mio fratello non ne avevamo mai abbastanza.
Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene. Se possibile le preferisco funzionali e vissute. Magari con tantissimi strofinacci asciutti e puliti e le piastrelle bianche che scintillano.
Banana Yoshimoto, Kitchen (1988)
COLONNA SONORA
Il brano che mi ha accompagnata durante la scrittura è Pane e castagne di Francesco De Gregori
2 risposte a “Is culixonis”
Che bellissima atmosfera…
Io non ho vissuto queste tradizioni e, anche se la mia infanzia è costellata di bellissime esperienze, forse capire quella che narri in questo post sarebbe stato davvero emozionante.
Grazie Cinzia. Per me è importantissimo condividere ricordi e tradizioni, perché si creano interazioni e le esperienze si arricchiscono