Anselmo Littera

Recentemente mi sono resa conto di aver vissuto l’infanzia e l’adolescenza sentendo intorno a me una presenza immateriale e reale allo stesso tempo.

Una presenza immateriale in quanto vissuta attraverso il racconto, gli aneddoti e le speranze. Una presenza reale poiché vissuta, sebbene non nel modo convenzionale.

Si trattava del fratello di nonna Gelasia, Anselmo. Era nato a Orroli nel 1922. Poco meno che ventenne, durante la seconda guerra mondiale, si è arruolato volontario per servire il paese o forse per garantirsi un futuro migliore.

È partito e non è mai rientrato a casa.

Il 16 settembre del 1941 si è imbarcato a Taranto con il piroscafo Neptunia, diretto a Tripoli, con l’obiettivo di portare le truppe dell’esercito italiano sul fronte libico. 

Risulta disperso dal 18 settembre del 1941, data in cui la Neptunia venne affondato da un sommergibile  inglese. Le vittime furono 384. 

Pensare a lui mi fa tornare indietro nel tempo. Rivivo le sensazioni che provavo entrando nella camera da pranzo di casa di nonna.

Era la stanza più fresca di tutta la casa: aprendo la porta si sentiva la variazione di temperatura, quasi come se fosse uno spostamento d’aria.

La stanza aveva forma quadrata.

Partendo da destra, c’erano un’antica cassa sarda in legno, intarsiata e dipinta di nero lucido, un divano con i cuscini a quadri verdi e marron e un appendi abiti. Al centro un tavolo marron con i piedi rossi lucidi e tutt’intorno le sedie.

L’elemento che più di tutti catturava la mia attenzione era la credenza appartenuta alla mia bisnonna. Oltre a contenere le tazzine e i piatti dei “servizi buoni”, ospitava in bella mostra le foto di bisnonni, zii e nipoti perlopiù deceduti.

La stanza non comunicava con l’esterno, fatta eccezione per una piccola finestra con le inferriate. Per questo motivo era poco illuminata, sempre in penombra, e l’ho sempre associata all’idea della morte.

Forse perché è stata anche la stanza in cui mia nonna e le sue sorelle hanno pianto il padre, secondo il rituale de s’atìtidu, e in cui abbiamo dato l’ultimo saluto a nonno Evandro.

In mezzo a quei ritratti di parenti morti, Anselmo mi è sempre apparso come un personaggio mitologico, quasi di fantasia, quindi eternamente vivo.

Nella mia mente, infatti, ha continuato a vivere quella vita di cui probabilmente era andato alla ricerca e che nella realtà gli era stata preclusa.

Immaginavo che fosse sopravvissuto ma che a causa di un’amnesia non ricordasse le sue origini.

Mi piaceva pensare che si fosse trasferito in America, raggiunta dopo un lunghissimo viaggio, dove avrebbe avuto una sua famiglia.

Ho sempre creduto che da adulta avrei conosciuto i figli dei figli che probabilmente sarebbero andati alla ricerca di quel pezzo di famiglia di cui non avevano mai saputo niente.

Da adulta, purtroppo, ho saputo che in realtà era rimasto ucciso in seguito all’impatto con il sommergibile. Un albero dell’imbarcazione lo aveva colpito alla testa.

Ma la bambina che ancora vive in me non smetterà mai di credere alla favola dello zio Americano.

Per lo più lavoravo. Al mattino presto il sole gettava la mia ombra verso ponente mentre a passo svelto mi calavo nei bianchi abissi di Lower New York fino al Probity Trust. Conoscevo il nome di battesimo degli altri impiegati e giovani mediatori finanziari, e a pranzo mangiavo con loro piccole salsicce d maiale e purè e bevevo un caffè in ristoranti bui e affollati.

Ho avuto anche una breve relazione con una ragazza che viveva a Jersey City e lavorava nell’ufficio contabilità, ma a un certo punto suo fratello cominciò certe occhiatacce nella mia direzione, così quando in luglio lei andò in vacanza lasciai perdere.

Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby

Il brano che mi ha accompagnata durante la scrittura è Take the “A” Train di Duke Ellington and His Orchestra

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