Sa supa cota

Tra i racconti di nonno Evandro, mi sono sempre piaciuti tantissimo quelli legati alla sua giovinezza.

Mi parlava di quando faceva il pastore e doveva camminare ore per raggiungere il pascolo. Ma camminare non è mai stato un problema per lui, neanche quando doveva tornare in paese per le feste. La sera ballava su ballu sardu, il ballo tradizionale sardo, in piazza e poi tornava indietro dopo qualche ora per riprendere il lavoro.

Succedeva soprattutto in occasione della festa di Santa Caterina e quindi raggiungeva la chiesetta campestre intitolata per l’appunto a Santa Caterina D’Alessandria.

In occasione delle feste paesane, uno dei piatti preparati con maggiore frequenza era sa supa cota. Un piatto povero ma delizioso, tipico della tradizione agropastorale. Si prepara ancora e sin da bambina è sempre stato il mio piatto preferito.

Si faceva col pane raffermo, su modhitzosu, il lardo di maiale, il brodo di pecora, lo zafferano e su casu axedu, un formaggio fresco leggermente acidulo. Il lardo veniva utilizzato per foderare la teglia, in rame o alluminio, sia per insaporire ma anche affinché il preparato non si bruciasse. Sopra il lardo si mettevano le fette di pane raffermo che si bagnava col brodo in cui veniva precedentemente sciolto lo zafferano. Sopra il pane bagnato si disponeva il formaggio tagliato a fette e a seguire altro pane, brodo e formaggio, fino ad esaurire gli ingredienti. Si faceva cuocere nel camino, poggiando la teglia sulla brace e mettendo sopra il coperchio cenere calda e brace.

L’altro fratello invece si confortava a guardar la madre che faceva la polenta: già ella aveva appoggiato al paiuolo pendente dalla catena, per tenerlo fermo sul fondo del camino, un’asse, sulla quale premeva un ginocchio; e piegata, senza timore del fuoco, rivoltava la miscela bollente con un lungo cannello dalla punta inclinata. Dentro il paiuolo la polenta cominciò a sbuffare, accennando a staccarsi dalle pareti di rame lucente: la donna allora raddoppiò di forza, senza cessare un attimo di stare attenta all’evoluzione della pasta che pareva prendesse forma con dolore: e quando la vide tutta staccata densa, con un uncino spiccò rapidamente il paiuolo dal gancio e d’un botto, con un’abilità che le permise di non sentire neppure il calore del recipiente, la vuotò sull’asse della madia.

Grazia Deledda, Annalena Bilsini (1927)

COLONNA SONORA
Il brano che mi ha accompagnata durante la scrittura è ‘Â çimma di Fabrizio De André

2 risposte a “Sa supa cota”

  1. Che ricordi quelli legati ai pastori.
    Mio zio Giovanni, cognato di mia madre, lo era.
    D’inverno la trasumanza lo conduceva con il gregge in campidano ma in estate quando tornava a Desulo per me era una festa. Mi piaceva tanto seguire la mungitura e la tosatura o giocare con gli agnellini tanto da farmi convincere che da grande avrei fatto il pastore. Raggiungevamo, con i cugini, l’ovile al mattino portando cibo e vino per lo zio e il servo pastore.
    Un giorno di fine settembre rientrando a casa, naturalmrnte e piedi, un violento e improvviso temporale ci colse con un brusco abbassamento della temperatura. Trovammo riparo nel cavo del tronco di un grande castagno (cosa peraltro pericolosa) e mi riscaldai stringendo una gavetta con la ricotta calda appena fatta. Il mio desiderio di fare il pastore svanì in un attimo.

Rispondi

Scopri di più da Un viaggio nei ricordi, e non solo...

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading